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23/11/2011
Una intervista dal blog di Dariavegan.
Marina Berati
Ingegnere e sviluppatrice software, è attivista per gli animali per passione (e dovere!) da oltre 15 anni.
Coordina l’attività del network animalista AgireOra Network e di AgireOra Edizioni, casa editrice non-profit per la pubblicazione di libri e materiali informativi legati a tematiche animaliste.
E’ autrice di opuscoli, materiali divulgativi, articoli su temi animalisti, campagne di comunicazione.
Tiene conferenze pubbliche e nelle scuole sui temi dell’ecologia della nutrizione, della scelta vegan e dell’antivivisezionismo.
Marina Berati, attivista, vegana… si può dire una vita dedicata agli animali? Da quanto tempo Marina?
Attivista, da circa 15 anni. Vegan da 14, dopo 9 anni da vegetariana. Mi rammarico di averci messo così tanto, a diventare vegan dopo la scelta vegetariana. Per questo ora cerco di far capire a tutti che se si decide di diventare vegetariani, allora bisogna diventare vegan, perché i motivi sono gli stessi. Io non l’avevo capito, ci ho messo troppo a capirlo, ma ora per fortuna ci sono così tante informazioni disponibili grazie al web che è difficile non scoprirlo.
Ma per fare la mia parte, per fare in modo che gli altri impieghino di meno a capire questi perché, ho scritto, vari anni fa, questa “Lettera aperta ai vegetariani”: https://www.veganhome.it/vegetariani/lettera-aperta/
I vegani sono in costante aumento nei paesi così detti “civilizzati” ma aumenta anche il consumo di carne nei paesi più poveri. Questo significa che il numero degli animali ammazzati rimane invariato, oppure sono comunque diminuiti, o sono aumentati?
Più che paesi “civilizzati” direi “industrialmente sviluppati”. In questi paesi il consumo di carne è altissimo, ma aumenta anche il numero di vegetariani e vegan, e quindi inizia a esserci uno spostamento dei consumi. Purtroppo, però, il numero di animali uccisi sta comunque aumentando di anno in anno, soprattutto a causa dell’aumento di consumi nei paesi “in via di sviluppo” dove tradizionalmente di carne se n’è sempre mangiata ben poca. D’altra parte, anche qui in Italia di carne se n’è sempre mangiata pochissima, non è certo un’alimentazione tradizionale quella basata sul consumo di carne e altri cibi animali a ogni pasto. E’ solo da qualche decennio che è stata presa questa pessima abitudine. E nei paesi in via di sviluppo accade lo stesso, queste popolazioni stanno facendo gli stessi errori che sono stati fatti qui 50-60 anni fa. Per il semplice motivo che la carne è ancora considerata cibo “da ricchi” e quindi è qualcosa che le persone desiderano.
Che impatto ha sull’ambiente il consumo di prodotti animali?
Per rispondere in modo completo a questa domanda ci vorrebbero decine di pagine.
In breve, però, il concetto è semplice: si tratta dell’estrema inefficienza della trasformazione vegetale-animale. Per capire cosa questo significa, faccio una premessa: tutti immaginano che la produzione di cibo sia qualcosa di “naturale”, al contrario dell’industria, e che quindi non sia qualcosa di inquinante e che causa danni all’ambiente. Questo però non è vero. L’industria della produzione di cibo è, appunto, un’industria, come tutte le altre. E come tutte, utilizza materie prime e risorse, le trasforma per ottenerne altre, e nel far questo emette inquinanti. Quindi è un settore che ha un impatto sull’ambiente. Se il cibo che si produce è vegetale, si ha un certo impatto, se invece si produce “cibo animale” – cioè carne, pesce, latticini e uova – si ha un impatto ambientale molto maggiore, a parità di calorie/proteine e in generale “nutrimento” che tale cibo ci fornisce. “Molto maggiore” non vuol dire il doppio, o il triplo, che già sarebbe tanto, ma significa un ordine di grandezza superiore, vale a dire circa 10 volte tanto, ma può essere 8 o 15 a seconda di quale specifico “impatto” consideriamo.
Perché accade questo? Il nocciolo della questione è che gli animali d’allevamento sono “fabbriche di proteine alla rovescia”. Già, perché quando ci fa comodo, gli animali sono solo macchine senza sentimenti ed emozioni, e allora li possiamo trattare come ci pare, ucciderli, torturarli. Ma poi non vogliamo ammettere che queste “macchine” inquinino all’inverosimile per “funzionare”. La realtà è esattamente il contrario: gli animali non si possono maltrattare e uccidere, perché macchine non sono, ma quando vengono sfruttati come tali allora inquinano tantissimo.
Sono fabbriche di proteine alla rovescia perché consumano molte più calorie, ricavate dai mangimi vegetali, di quante ne producano sottoforma di carne (intesa anche come “pesce”), latte e uova: come “macchine” che convertono proteine vegetali in proteine animali, sono del tutto inefficienti. Il rapporto di conversione da mangimi vegetali per gli animali a “cibo animale” è mediamente di 15, il che significa che per ogni kg di carne che si ricava da un animale, lo stesso animale deve mangiare mediamente 15 kg di vegetali, appositamente coltivati. Con uno spreco abnorme di terreni fertili, energia, acqua, sostanze chimiche e con l’emissione di inquinanti. Infatti il cibo serve a sostenere il metabolismo degli animali allevati e inoltre vanno considerati i tessuti non commestibili come ossa, cartilagini e frattaglie, e le feci. Noi stessi, se mangiamo mezzo kg di cibo al giorno, di vario genere, non pesiamo di certo mezzo kg in più al giorno. E così gli animali. La gran parte del cibo che mangiano serve a farli vivere, non a farli ingrassare. E il resto viene smaltito con le deiezioni (gli escrementi).
Se usassimo i terreni per coltivare i cibi vegetali di cui nutrirci direttamente, anziché coltivare i vegetali per darli agli animali e poi ricavare da questi i “cibi animali”, servirebbe una quantità di terreno, di acqua, di energia, di sostanze chimiche 10 volte minore.
È da questo che derivano i problemi di impatto ambientale, tutti hanno origine da questa inefficienza di base; e tutto questo porta alla carenza d’acqua, alla deforestazione, all’effetto serra. Si possono trovare molti dati e informazioni su questo tema sul sito https://www.saicosamangi.info/
Fare uso di latticini e uova, provoca la stessa sofferenza agli animali del mangiare la carne?
Anche di più. Sicuramente porta alla morte degli animali usati, ma la sofferenza causata dagli allevamenti per la produzione di uova e di latte è ancora maggiore rispetto a quella cui sono sottoposti gli animali “da carne”, perché dura più a lungo, usa metodi ancora più cruenti, e causa un forte dolore anche emotivo negli animali.
Per capire bene la situazione, vediamo come funzionano questi allevamenti.
Per la produzione di latte, la mucca deve essere ingravidata e partorire un vitello ogni anno. Le mucche infatti non producono latte per magia, ma perché, come tutti i mammiferi, devono nutrire il proprio piccolo quando nasce. Quel che accade è che il vitellino viene subito portato via alla madre, con estrema sofferenza e dolore per entrambi. Viene allevato in un piccolo box senza possibilità di movimento, per 6 mesi, e poi viene macellato. Sarebbe d’altro canto impensabile mantenerlo per 20 o 30 anni senza che sia “produttivo” (non ci sarebbe nemmeno spazio sulla Terra), quindi queste uccisioni sono qualcosa di obbligato affinché la produzione di latte possa avvenire. La mucca dopo circa un anno smette di produrre latte, ma nel frattempo è già stata nuovamente ingravidata, e quindi è già pronta a partorire un altro figlio, che le viene di nuovo portato via. Dopo 4-5 anni (ma ormai sono diventati solo 2 o 3, nei moderni allevamenti) di questa vita, la mucca è talmente sfruttata che non riesce più a essere abbastanza produttiva. . Viene quindi mandata al macello pure lei. Tante volte accade che queste mucche non riescano nemmeno a reggersi ancora in piedi. E’ tristemente noto il problema delle “mucche a terra”, animali così sofferenti da non riuscire a stare in piedi, che vengono caricate sui camion verso il macello a suon di spinte o con argani.
Per la produzione di uova il discorso è analogo. Si parte con la “produzione” di pulcini, quelli che dovranno diventare galline ovaiole, cioè galline utilizzate per produrre le uova che vengono vendute per l’alimentazione umana. Esistono fabbriche piene di incubatrici in cui le uova fecondate sono tenute, fino alla schiusa. A quel punto, se il pulcino è femmina, diventerà gallina ovaiola; se è maschio, è inutile, perché non è della razza giusta per diventare un pollo “da carne” (e se lo fosse, verrebbe allevato in capannoni orrendi e ucciso a 6 settimane) e non essendo femmina non farà le uova. Viene quindi ucciso subito, o tritato vivo o soffocato in un sacco assieme a migliaia di suoi simili. Alle femmine, invece viene tagliato il becco, perché non possano ferire le compagne di gabbia una volta adulte, quando per la disperazione di essere costantemente rinchiuse potranno diventare aggressive. Passano poi i due anni successivi in gabbie piccolissime, senza mai vedere la luce del sole, e infine vengono macellate.
Su questo tema consiglio la visione dell’investigazione: “Gli orrori della produzione di uova”
http://www.tvanimalista.info/video/allevamenti-macelli/produzione-uova-pulcini/
Ecco dunque spiegato come la produzione di latte uccida vitelli e mucche e crei sofferenza psicologica e fisica estrema a entrambi e come la produzione di uova uccida in modo agghiacciante i pulcini maschi, torturi per 2 anni le femmine e poi le faccia finire al macello. Ed ecco perché se si è scelto di essere vegetariani per non uccidere gli animali è necessario diventare vegani.
Per quanto riguarda la sofferenza dei pesci, sembra ci sia una tendenza generale a sottovalutarla, c’è chi addirittura si considera vegetariano perché non mangia la carne ma continua a mangiare pesce. Eppure la morte del pesce, che avviene per soffocamento, è tra le più atroci…
La morte dei pesci avviene in tanti modi: vengono uccisi per soffocamento semplicemente lasciandoli all’aria senza possibilità di respirare; vengono messi sul ghiaccio e dissanguati (metterli sul ghiaccio serve solo a immobilizzarli, non a stordirli, rimangono coscienti); vengono uccisi con una fiocina nel cranio (i tonni, per esempio); vengono storditi con l’elettricità o con un colpo in testa (ma il più delle volte rimangono coscienti); vengono messi in acqua e sale ad agonizzare prima di venire spellati e fatti a pezzi; vengono immersi in acqua in cui viene fatta passare la corrente elettrica; vengono immersi in una miscela di acqua e ghiaccio fino alla morte (lenta). Molti pesci vengono venduti ancora vivi (l’85% delle carpe viene venduto vivo) ed è quindi il “consumatore finale” a ucciderli come vuole.
Solo perché non possono urlare, e anche perché sono animali abbastanza “distanti” da noi, certo più distanti dei mammiferi, ma anche dei volatili, la sofferenza dei pesci non viene considerata, le persone non capiscono che i pesci sono senzienti come tutti gli altri animali. Siamo noi che non li conosciamo e non li sappiamo capire, non loro che “valgono meno” degli altri.
Oltre a tutto questo, la pesca, ma ancor di più l’allevamento di pesci, è causa di devastazione ambientale estrema: si devastano i mari, decimando le popolazioni di pesci e altri animali marini, si inquina, si distruggono habitat. Insomma: mangiare i pesci significa ammazzare esseri senzienti e devastare l’ambiente esattamente come mangiare qualsiasi altro tipo di “carne”, non è certo meno “grave”, tutt’altro. E ovviamente, chi mangia i pesci non è vegetariano affatto.
Essere vegan vuol dire anche non fare uso dei prodotti delle api: miele, propoli, pappa reale, cera d’api…
Ci puoi spiegare Marina, cosa comporta per le api in termine di sofferenza, usare i loro prodotti?
Per tutto questo vengono usate le api, ed è praticamente impossibile non ucciderne qualcuna durante il prelevamento e utilizzo dei loro prodotti. Questo nella migliore delle ipotesi, cioè per prodotti artigianali su piccolissima scala. Per la produzione su media e larga scala, la quantità di api uccise cresce di molto, quindi è ancora peggio. Questi prodotti, dunque, che siano artigianali o industriali, non si possono certo considerare vegan e “senza crudeltà”. D’altra parte, sono cose di cui non c’è davvero bisogno, che non sono certo di uso comune, si usano ogni tanto perché convinti che siano “naturali” o “facciano bene”, ma una volta capito che così non è, è davvero facile evitarli, dato che non si userebbero certo tutti i giorni. Al posto del miele possiamo usare il malto, al posto di propoli e pappa reale possiamo usare prodotti erboristici a base di erbe, e per produrre la cera non servono certo le api.
E per la lana? Le pecore hanno bisogno di essere tosate, che male c’è indossare la loro lana?
Le pecore non hanno certo “bisogno” di essere tosate, nessun animale, in natura, ha bisogno dell’uomo, tutt’altro. Sarebbe davvero buffo se esistesse in natura un animale che non sa badare a se stesso. A parte questo, c’è il fatto che la tosatura non è un’operazione incruenta: viene praticata senza nessuna cura per gli animali, spesso con mezzi meccanici che provocano dolore e ferite; molte pecore soffrono il freddo e si ammalano perché esposte alle intemperie dopo le tosature eseguite in pieno inverno.
Ma il problema di fondo, quello che esiste sempre e comunque, anche se gli animali venissero tosati senza farli soffrire, è che quando c’è allevamento, c’è sempre la macellazione. SEMPRE. Non esistono e non possono esistere allevamenti in cui gli animali siano lasciati morire di morte naturale. Quando non producono più abbastanza, vengono uccisi, punto e basta, e non può essere altrimenti. Quindi, illudersi che siccome lo scopo di un dato allevamento non è la produzione di carne, allora gli animali non verranno uccisi, è pura illusione. Che si tratti di latte, di uova, di lana, di piume, qualunque sia il “prodotto” che si ricava dagli animali, quegli animali finiranno al macello, e comprando quel prodotto si condannano a morte quegli animali. È sempre così.
La lana si può evitare facilmente, esistono molti altri materiali: il velluto, che è fatto di cotone o materiali sintetici; la ciniglia di cotone; la flanella; il pile, che tiene caldo ed è leggerissimo. Si trova anche in forma di filato, per cui si possono realizzare maglioni a ferri, proprio come si fa per la lana. E lo stesso vale per la ciniglia. Esistono poi tutte quelle fibre sintetiche di cui sono fatti maglioni e maglioncini più o meno pesanti, disponibili in una gran varietà in tutti i negozi.
Parliamo di vivisezione, se non sbaglio ci sono ancora 5 tipi di test sugli ingredienti dei cosmetici che vengono effettuati sugli animali, quali sono?
Ci sono ancora tre aree (non cinque) in cui, ad oggi, vengono utilizzati animali per i test sugli ingredienti dei prodotti cosmetici, dove con “cosmetici” intendo non solo il make up ma tutti i prodotti per l’igiene personale (shampoo, creme, ecc.): 1. tossicità ripetuta (compresa tossicità cronica); 2. tossicità riproduttiva (o teratogenicità); 3. tossicocinetica. Questi test sono molto invasivi e dolorosi per gli animali, oltre che essere completamente inutili, perché sappiamo bene che specie diverse rispondono in modo diverso alle sostanze chimiche.
Il tipo di test indicato con 1 consiste nel somministrare agli animali di laboratorio – che possono essere di varie specie: roditori, conigli, cani, gatti, scimmie – dosi relativamente basse della sostanza da testare per periodi di tempo lunghi; qui sono compresi anche i test di “tossicità cronica”, che vengono svolti per tutta la durata della vita dell’animale. Il tipo 2 misura la capacità della sostanza di creare difetti nella prole, quindi il composto chimico viene somministrato ad animali in gravidanza e poi si esaminano i figli, per vedere se sono sani, se hanno malattie, deformità, problemi di qualsiasi genere. Il tipo 3 sono test che servono per capire come la sostanza raggiunga le cellule e gli organi e causi eventuali danni biologici. E’ molto chiaro che si tratta quindi di veri e propri “avvelenamenti” prolungati cui gli animali sono sottoposti, per essere poi uccisi ed esaminati.
Per tutti gli altri tipi di test (irritazione e corrosione della pelle, tossicità acuta – che misura l’effetto di alte dosi della sostanza in un’unica somministrazione, mutagenesi – che misura la capacità della sostanza sotto test di far mutare le cellule dell’organismo, ecc.) vige in Europa dal 2009, dopo lunghe battaglie, il divieto sia di condurre tali test nei laboratori dell’UE sia di vendere in Europa prodotti che contengono sostanze testate su animali fuori Europa. Invece per queste tre aree sopra citate i test si possono condurre solo fuori Europa (il che, in un settore globalizzato come questo, è piuttosto facile) ma i prodotti possono essere venduti sul mercato europeo, quindi di fatto questi test continuano a essere fatti, e non c’è modo per fermarli se non con un divieto totale di vendita.
Entro marzo 2013, salvo ulteriori slittamenti, dovrebbero essere vietati tutti i cosmetici con ingredienti testati sugli animali. Nel frattempo, per i nostri acquisti cruelty-free, come possiamo fare?
Nel 2013 dovrebbe essere vietata la vendita in Europa di prodotti testati su animali nei 3 settori sopra citati: se così avvenisse davvero, nel giro di un paio d’anni (il tempo necessario affinché il divieto divenga effettivo e vengano implementati i dovuti controlli) potremmo finalmente smettere di preoccuparci di quale marca di cosmetici aderisca allo Standard “cruelty free”. Il condizionale però è d’obbligo, perché questa data è in grave pericolo di slittamento, e se questo accade potrebbe essere tutto rimandato di molti anni. C’è ancora poco tempo per fare qualcosa per convincere l’Unione Europea a confermare il divieto assoluto di vendita di cosmetici con ingredienti testati su animali entro il marzo 2013, quindi invito tutti a firmare le petizioni on-line sul tema e a raccogliere firme sul modulo cartaceo, si trova tutto alla pagina della campagna: “Cosmetici cruelty-free entro il 2013″ – https://www.agireora.org/attivismo/petizioni-test-cosmetici-2013.html
Nel frattempo, è necessario comprare SOLO i prodotti cosmetici che rispettano lo Standard “cruelty free” con la cosiddetta “fixed cut-off date”, cioè una data FISSA oltre la quale il produttore ci assicura che nessun test su animali è stato fatto da nessuno, in nessuna parte del mondo. Solo in questo modo continuerà la spinta allo sviluppo di metodi alternativi senza animali e non verrà incrementata la vivisezione. Quali sono questi prodotti cruelty-free? Sono le marche indicate a questa pagina del sito VIVO:
www.consumoconsapevole.org/cosmetici_cruelty_free/lista_cruelty-free.html
E per i farmaci?
Per i farmaci la questione è più complessa, perché non esistono delle direttive europee come quella sui cosmetici e, di fatto, tutti i farmaci sono testati su animali per obbligo di legge. Questo non significa che per lo sviluppo dei farmaci siano necessari i test su animali, da un punto di vista scientifico. Tutt’altro, i test su animali, in questo campo come in altri, non servono a nulla, ma vengono eseguiti unicamente per questioni legali. Quel che occorre fare, dunque, è modificare la legislazione anche in questo campo, introdurre l’obbligo di utilizzare metodi senza animali, sviluppandone ancora di più rispetto a quelli già esistenti.
Nel frattempo, è importante non usare farmaci se non necessari e utilizzare invece preparati a base vegetale, per i “piccoli malanni” che ci affliggono; oltretutto, con l’alimentazione vegan la nostra salute è molto migliore rispetto a quella dell’onnivoro medio, e quindi c’è anche molto meno bisogno di farmaci.
Quando proprio non si può fare a meno di usarli, per qualche malessere più grave, si può scegliere di usare, se esiste, il corrispondente “farmaco generico”.
Cosa sono i “generici”? Per rispondere, occorre sapere che dopo un certo numero di anni (in Italia, 20) dall’entrata in commercio di un farmaco, il brevetto su tale farmaco scade, e chiunque, qualunque produttore, può iniziare a produrre lo stesso farmaco, che si chiamerà “generico”. Il farmaco generico è uguale identico a quello “di marca”: deve avere lo stesso principio attivo, presente alla medesima dose, la stessa forma farmaceutica, la stessa via di somministrazione e le stesse indicazioni terapeutiche.
L’aspetto importante è che un generico, quando viene messo in commercio, NON viene ri-testato su animali. Perciò, scegliere di usare un generico, cioè un farmaco VECCHIO oppure un farmaco “di marca”, cioè uno NUOVO, fa una differenza enorme: nel primo caso, non incrementiamo la vivisezione (e siamo anche più tranquilli perché se un farmaco è ancora in commercio dopo 20 anni vuol dire che non è così pericoloso per la salute umana), nel secondo caso diamo soldi alle industrie farmaceutiche per aver sviluppato nuovi farmaci testati su animali che hanno la stessa finalità di quelli già esistenti.
Comprare un generico è facilissimo: quando andate a comprare un farmaco uno in farmacia, potete chiedere al farmacista “Esiste un generico corrispondente?”. E lui è tenuto a dirvelo. Il sistema sanitario nazionale chiaramente sostiene l’uso dei generici perché questo fa diminuire sensibilmente la spesa statale per la salute pubblica.
Per capire meglio questo tema, propongo la lettura dell’articolo:
“Farmaci generici e antivivisezionismo” – https://www.novivisezione.org/info/generici.htm
Grazie Marina per la pazienza e la disponibilità.
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Intervista realizzata da Daria Mazzali
http://dariavegan.wordpress.com/
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