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28/07/2007
Il numero di luglio 2007 di The Scientist pubblica un articolo molto interessanteed estremamente critico contro la pratica della sperimentazione animale nellaricerca medica e nello sviluppo di nuovi farmaci, intitolato: "Il problema dei modellianimali - Perché i successivi test sugli umani non hanno successo?".
L'articolo, molto approfondito e circostanziato, mostra in quali modi e per quali motivi le ricerche e i test di farmaci fatti sugli animali sono del tutto inutili: non solo per l'ovvia differenza tra le specie, ma anche per altre ragioni più complesse. L'analisi prende le mosse dal fallimento dei test sui pazienti umani dell'ultima sostanza contro l'ictus cerebrale ischemico che sembrava così promettente quando provata sugli animali, l'NXY-059, ma si allarga poi a esaminare i motivi delle tantissime discrepanze tra risultati su animali e su umani, perché questo è tutt'altro che un caso isolato.
Ne emerge un quadro assolutamente desolante, che dà ancora una volta ragione al crescente movimento scientifico antivivisezionista. In questo articolo esamineremo in maniera struttrata e critica i punti principali dell'articolo di The Scientist, mentre per la versione originale, in inglese, si rimanda alla fonte.
Il composto che sembrava negli ultimi anni così promettente per la cura dell'ictus cerebrale ischemico, l'NXY-059, si è dimostrato una grossa delusione per tutti gli adetti ai lavori: la sua efficacia rispetto al placebo di confronto è stata davvero limitata. Così l'NXY-059 è andato ad aggiungersi alla quindicina di cure fallite che avevano raggiunto la "fase III", quella dei test sugli umani, dopo aver superato la fase di test su animali, sui quali le cure si erano dimostrate efficaci.
Questo fallimento ha colpito in modo particolare i partecipanti a un gruppo di lavoro di esperti che, dal 1999, avevano iniziato ad affrontare la questione della discrepanza tra i risultati sugli animali e quelli su umani.
Se si fosse trattato di un evento isolato si sarebbe anche potuto ignorare, ma non lo è: quasi la metà delle molecole efficaci sugli animali falliscono i test della fase III, secondo quanto dichiarato da Janet Woodcock, della FDA (Food and Drug Administration, l'agenzia statunitense deputata all'approvazione dei nuovi farmaci).
Sid Gilman, direttore del Centro di Ricerca sulla Malattia di Alzheimer del Dipartimento di Neurologia dell'Università del Michigan e consulente di AstraZeneca per i test clinici della fase III, dichiara: "Non c'è dubbio sull'assenza di efficacia dell'NXY-059 e questo ha chiamato in causa l'affidabilità dei modelli animali, usati anche per molti altri studi sull'ictus. Tante molecole sembravano efficaci sul modello animale e sono poi risultate fallimentari nei test sugli umani".
Uno dei problemi sembrava essere la mancanza di metodo nello svolgere i test su animali, che spesso vengono fatti in modo molto approssimativo. Nel 1998 quindi venne creato il gruppo di lavoro STAIR (Stroke Therapy Academic Industry Roundtable) con lo scopo di standardizzare la metodologia usate per i test su animali nei casi dello studio dell'ictus, dopo due clamorosi fallimenti di altrettante molecole che dovevano servire come cura.
Già questa ammissione di fallimento è significativa: la maggior parte dei test su animali sono fatti senza criterio e quindi di per sè inutili, il che significa spreco di vite animali, di tempo, e di risorse. Ma non finisce qui.
Le linee guida del gruppo STAIR raccomandavano di eseguire i test su roditori e su una specie non roditrice; di eseguire test in cieco; di usare animali di ambo i sessi e varie età; e di pubblicare tutti i risultati, sia negativi che positivi.
I test su animali per l'NXY-059 sono stati eseguiti seguendo le linee di guida di STAIR: ma i succesivi test su umani sono falliti lo stesso!
Le difficoltà di usare i modelli animali per studiare le malattie umane derivano com'è noto dalle differenze metaboliche, anatomiche, cellulari tra gli umani e gli altri animali, ma i problemi sono anche altri, e non sono eliminabili.
Per il modo stesso in cui i test sono effettuati, i risultati vengono per forza falsati, per cui non sarebbero validi nemmeno se si studiassero le malattie di quella specie animale, figuriamoci poi cercare di traslare i risultati sugli umani.
Alcuni esempi.
"Immaginate di avere una gabbia con 20 ratti, e di dover somminstrare la cura ad alcuni di loro" spiega Ian Roberts, professore di epidemiologia alla London School of Hygiene and Tropical Medicine. "Mettete un mano nella gabbia, e tirate fuori un ratto. I ratti più sani e forti sono i più difficili da catturare, così quando ne avete tirati fuori 10, quei 10 sono i più deboli, i più stanchi, non sono uguali a quelli rimasti in gabbia. E già così c'è subito una differenza tra i due gruppi, quello di controllo e quello a cui sarà somministrata la cura, che falsa le statistiche".
Spiega inoltre Jeffrey Mogil, ricercatore in psicologia della McGill University di Quebec, che i topi mostrano un "dolore empatico" verso i loro compagni di gabbia che stanno male. Vale a dire, se vedono un loro compagno che sta male, mostrano anche loro i sintomi del malessere, e un osservatore esterno difficilmente riesce a distinguere i due casi. Un altro esemepio è quello dell'influenza dei ricercatori stessi: la sola presenza del ricercatore può alterare il comportamento dei topi.
Un altro aspetto che ben dimostra la mancanza di affidabilità dei test su animali è il diverso modo di valutare l'efficacia della cura sulle diverse specie, che deriva appunto dalla diversità della malattia (quella vera sugli umani, quella aritficiale negli animali) nei due casi, e che rende evidente come gli animali non siano affatto un "modello" utilizzabile per la malattia umana.
Nel caso della molecola NXY-059 sotto studio, per esempio, i ricercatori hanno indotto artificialmente un evento ischemico sui ratti, hanno somministrato loro la cura, e poi hanno misurato l'ampiezza dell'infarto a diversi intervalli di tempo.
Invece nei test clinici l'effetto della cura è stato valutato sui pazienti colpiti da ictus usando indicatori comportamentali come la scala Rankin modificata e la scala NIHSS.
Nei test sui primati, la valutazione del comportamento veniva fatta sulla base di un sistema di "ricompensa" usando del cibo, e ha mostrato che la molecola NXY-059 non migliorava la debolezza al braccio sinistro dopo un ictus. Ma, afferma il dott. Savitz in un articolo pubblicato su Experimental Neurology "Anche se prendiamo per buono il fatto che l'NXY-059 non migliora la debolezza delle braccia, questo risultato come può essere traslato sugli studi sull'ictus negli umani che usano scala Rankin modificata e la NIHSS, come standard di misura?"
Ci si aspetta che chi usa animali sia convinto dell'efficacia e scientificità delle sue azioni, se non altro, e quindi esegua i propri esperimenti scegliendo la specie "più adatta" secondo criteri scientifici (almeno, dal suo punto di vista). Ma così non è: gli animali sono scelti in base a criteri economici e di praticità, quindi "a caso", per quanto riguarda l'aspetto scientifico.
Dichiara infatti Michael Festing, uno scienziato esperto di animali di laboratorio, da poco in pensione, che lavorava presso il Consiglio per la Ricerca Medica del Regno Unito: "La scelta della specie animale è piuttosto limitata. Esistono 4.000 specie di roditori, ma ne usiamo solo tre o quattro. E c'è scarsità di qualsiasi cosa che non sia un roditore, e in alcuni casi siamo costretti a usare cani e gatti, il che è un problema dal punto di vista etico, e primati, anche loro un problema dal punto di vista etico. Così la scelta del modello animale è fatta automaticamente: eliminando tutti quelli che non vanno bene, e scegliendo quel che rimane."
Quel che rimane da augurarsi è che, grazie ad articoli come questo, che iniziano a essere più diffusi rispetto ad anni fa, la scienza medica sperimentale inizi a diventare più "rispettabile" sia dal punto di vista etico che scientifico, eliminando al più presto i test di qualsiasi tipo su animali, inutili, fuorvianti, obsoleti.
Fonte:
The Scientist, The Trouble With Animal Models - Why did human trails fail?, di Andrea Gawrylewski, luglio 2007
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